Alexandre Del Valle - PERCHE' LA TURCHIA NON PUO' ENTRARE IN EUROPA - Edizioni Guerini e Associati, 2009 - pagg. 238 - euro 22,50


edizione italiana a cura di Alberto Rosselli

prefazione di Roberto De Mattei

L’ingresso della Turchia nell’Unione Europea rappresenta uno dei primi e più scottanti problemi sul tappeto della politica internazionale.

Nel vertice del 5 aprile 2009, a Praga, il nuovo presidente americano Barack Obama, pur sapendo quanto sia controversa la questione turca, ha insistito con forza perché l’Europa apra le sue porte al governo di Ankara. Il presidente francese Nicolas Sarkozy e il cancelliere tedesco Angela Merkel hanno espresso, con altrettanta chiarezza, la loro riluttanza di fronte a questa prospettiva. La posizione dei due governi centro-europei costituisce un importante fatto nuovo, rispetto al dicembre 2004, quando, con l’appoggio determinante del presidente francese Jacques Chirac e del cancelliere tedesco Gerhard Schröder, fu stabilito ufficialmente il calendario dei negoziati con la Turchia, tuttora in corso. Le voci dell’allora cardinale Ratzinger, che definiva «antistorico» l’ingresso della Turchia in Europa, e del presidente della Convenzione Valéry Giscard d’Estaing, che definiva il possibile evento come «la fine dell’Unione Europea» rimasero isolate. Il governo di Silvio Berlusconi, allora e oggi, si è schierato su posizioni “turcofile”, assolutamente non comprese dall’elettorato del Popolo della Libertà.

Le ragioni che vengono addotte a favore dell’adesione turca all’Ue sono principalmente di natura economica e politica: esse vanno dall’importanza di un maggiore e più sicuro approvvigionamento energetico alla necessità di allearsi con l’islam «moderato» turco, contro il fondamentalismo islamico. Contro queste ragioni, ne militano tuttavia altre ben più cogenti. Le esprime bene Alexandre del Valle, uno studioso italo-francese, consulente di alcuni uomini politici europei, che ha al suo attivo una serie di importanti volumi tra cui Le totalitarisme islamiste à l’assaut des démocraties (2002) tradotto in Italia.

Uno dei primi miti da sfatare è quello della Turchia “laica” e filo-occidentale. È vero che in Turchia, dopo la Prima guerra mondiale, si è instaurata, sulle rovine dell’Impero ottomano, una Repubblica di impronta fortemente laicista, guidata dal generale Mustafa Kemal, che nel 1934 ha ricevuto il titolo di Atatürk, «padre dei turchi». Da allora, il processo di secolarizzazione del paese avviato da Atatürk ha preso il nome di kemalismo ed è continuato, dopo la sua morte, sotto il pugno di ferro dei militari. Ma a partire dagli anni Settanta, sotto l’influsso dei Fratelli musulmani, ha avuto inizio un processo di reislamizzazione del paese, culminato nel 2002 con l’ascesa al governo del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) di Recep Tayyip Erdogan. Il volto “moderno” e “laico” della Turchia kemalista non corrisponde più alla realtà odierna. A partire dagli anni Novanta, l’islamismo si è imposto sulla scena politica turca. I capi di governo e di Stato che oggi guidano il paese, Erdogan e Abdullah Gül, sono due discepoli di Necmettin Erbakan, l’artefice di un movimento di reislamizzazione che travalica i confini della Turchia e si estende a tutta l’emigrazione turca in Occidente.

Non a caso, la Turchia, presunto paese del laicismo, è oggi uno dei paesi dove si costruiscono più moschee e dove i partiti islamici registrano i maggiori successi elettorali. La reislamizzazione della società è visibile a tutti i livelli. Nel paese sono 90.000 gli imam stipendiati dallo Stato e 85.000 le moschee attive, una per ogni 350 cittadini: il più alto numero pro capite di moschee nel mondo. Parallelamente alla ricomparsa del velo nelle strade e nei luoghi pubblici, la chiamata del muezzin in arabo, un tempo proibita da Atatürk, scandisce ormai le giornate dei turchi, all’ombra dei minareti...


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