Intervento di Marco Tosatti in occasione della presentazione del libro di Emanuele Aliprandi "1915- cronaca di un genocidio" 27.11.2009
Roma 27.11.09
Sala delle Cerimonie
Pontificio Collegio Armeno
Credo che veramente dobbiamo essere grati a Emanuele Aliprandi per il dono che ha fatto alla storia del Genocidio degli Armeni, e a noi, di questo libro. E’ un’opera preziosa. In primo luogo perché è unica; almeno per quanto riguarda la nostra lingua. Non so se in altri paesi che hanno conosciuto – come
La letteratura su quello che è stato definito, ben a ragione, il primo genocidio di uno dei secoli più sanguinosi della storia umana, e soprattutto il primo genocidio “scientifico”, modello e ispirazione per altri crimini del genere è molto ricca.
Anche in lingua italiana, ormai, a differenza di soli quindici anni fa, è possibile trovare una bibliografia sufficiente a orientare e informare un lettore nuovo al tema. Ma a parte qualche accenno sporadico all’interno di opere di carattere più generale mancava completamente, finora, un libro che ci raccontasse come l’informazione nel nostro paese (con frequenti riferimenti anche agli organi di stampa delle altre nazioni) avesse vissuto la cronaca del “Metz Yegern”, il Grande Male, la distruzione degli Armeni in tutto il Medio Oriente ottomano, e in Anatolia e Cilicia, soprattutto.
Chi si è interessato dall’esterno del problema del genocidio armeno, come chi vi parla, e naturalmente chi l’ha vissuto e lo vive nella memoria e nelle esperienze personali della sua famiglia, ha potuto subito rendersi conto di quello che è il maggior punto di sofferenza, oggi, della questione. E cioè un atteggiamento negazionista che rasenta, quando non lo oltrepassa, il confine della provocazione da parte del governo turco di adesso, forte di alcune lamentevoli e impressionanti (da un punto di vista morale) complicità internazionali, che ancora si perpetuano. In termini pratici questo atteggiamento ha come ricaduta, all’interno della Turchia, e nei confronti dei visitatori di quel bel paese, una strategia della menzogna e della negazione; non solo relativa all’esistenza del fatto in sé, quanto anche delle presenze di etnie e religioni – armeni, siriaci, greci – radicate sul territorio ben prima della conquista delle stirpi di razza turca, e molto attive, a ogni livello della vita sociale, culturale ed economica fino a tempi recenti.
Questa cancellazione della memoria ha effetti pratici ora, e da ora verso il futuro. Fornisce il supporto pseudo culturale alle forme di vessazione, discriminazione e intolleranza, fino al crimine (Hrant Dink, don Santoro e numerosi altri ne sono purtroppo l’esempio sanguinoso e attualissimo) praticate e presenti, a ogni livello, nella società turca. Cioè di un paese che desidera veder riconosciute le sue aspirazioni europee.
Anche in questa ottica, così attuale, e che i recenti sviluppi dei rapporti turco-armeni non fanno che esaltare (nella speranza che non si tratti solo di azioni di propaganda, ma portino a reali prese di coscienza, assunzioni di responsabilità e gesti effettivi di riconciliazione e perdono) il paziente e ricchissimo lavoro di Emanuele Aliprandi è prezioso.
Esso testimonia di vari elementi. Il primo è che negli anni della guerra, e in quelli immediatamente successivi, a differenza di ciò che sostengono i negazionisti, la percezione dell’orrore avvenuto in quelle regioni era presente e forte, e le mancavano solo le cifre (quelle che un recente lavoro sugli appunti di Talaat Pascià ha rivelato, con buona pace dei negazionisti); tanto più notevole, questa percezione, in quanto non avveniva in un tempo di pace, ma nel pieno e nell’immediato seguito di una tragedia mondiale (“l’inutile strage” denunciata da Benedetto XV) che aveva riempito di cadaveri l’Europa. In un momento cioè in cui la sensibilità verso i drammi altrui, per quanto grandi, poteva, e sarebbe stato anche umanamente comprensibile, essere attutita dai dolori vicini.
Quindi i giornali, e le persone che li leggevano, erano ben consapevoli che si era svolta una tragedia, in quella parte del mondo. Non solo. Dalla lettura di molti degli articoli che Aliprandi con cura certosina ha fatto rivivere nella loro attualità, si capisce che anche le dimensioni, almeno nella sua portata generale, della tragedia furono immediatamente chiare. Non si trattava, come affermano gli storici al servizio degli interessi politici di un governo, di trascurabili movimenti dovuti alle difficoltà oggettive del paese in guerra. Era ben altro, e questo appare chiaro.
Non esisteva ancora la parola “genocidio”, perché la definizione creata da Raphael Lemkin (“distruzione di una nazione o di un gruppo etnico con un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, per annientare questi gruppi stessi”) verrà molto più tardi. Ma anche se mancava il termine, così preciso, e così odiato, proprio per questo dai negazionisti, quelli usati dai cronisti dell’epoca evocano tutta l’ampiezza del dramma in corso, senza possibilità di equivoci e di ambiguità. E con altrettanta chiarezza documentano come lo sterminio ebbe come vittime, indistintamente, tutti gli armeni; non solo quelli che potevano, a torto o a ragione, essere sospettati di intelligenza con il nemico. E’ indicativo di tanta chiarezza (e questo va a onore dei colleghi giornalisti di quasi un secolo fa) un articolo de “Il Secolo” del 1 settembre 1915, che scrive: “I bollettini quotidiani della grande guerra, la quale assorbe l’attenzione del mondo civile, distolgono il pensiero dagli episodi di politica interna, che in altri tempi sollevavano l’indignazione della stampa liberale. Così passano inosservati o rimangono ignoti i massacri, che nelle regioni orientali del dominio turco si riproducono da qualche tempo e sembrano rispondere a un piano prestabilito. Parlo degli Armeni, di questo popolo martire che da trent’anni la diplomazia europea venne illudendo con promesse di riforme che essa avrebbe saputo imporre al Governo turco, ma che non furono mai nemmeno tentate”. Abbiamo tutti gli elementi della tragedia: la guerra come cortina dietro la quale perpetrare lo sterminio, l’evidente – sin da allora percepita – programmazione dello sterminio, e l’inefficacia dell’Europa. Quella di ieri, di evitare o ridurre lo sterminio. Quella di oggi, inefficace e rinunciataria nell’imporre con fermezza al governo turco di guardare con oggettività nella storia recente del paese. Governo che invece, con l’art. 301 del Codice Penale, cerca di impedire alle poche coraggiose voci libere di levarsi a difesa della verità storica, quando non sono le pallottole degli estremisti, collusi con le forze dell’ordine, a farle tacere, come nel caso del giornalista di origini armene Hrant Dink.
Il libro di Aliprandi è veramente prezioso anche per questo: perché ci impedisce di vivere nella beata illusione che tutto ciò è accaduto, e in seguito non si è fatto nulla o quasi, perché i contorni del dramma erano evanescenti, opachi. Non è così: dalle corrispondenze dei giornali italiani, che spesso riprendevano quelle straniere, svizzere per esempio, che fruivano di informazioni precise e non di parte (
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